31 marzo 2010

LE ASSOCIAZIONI DI VOLONTARIATO NON POSSONO PARTECIPARE ALLE GARE

Con il parere n. 131 del 19 novembre 2009, l’Autorità, che si è già espressa in precedenti occasioni (cfr.: pareri n. 26 del 26 febbraio 2009; n. 266 del 17 dicembre 2008; n. 29 del 31 gennaio 2008), ha evidenziato come, in accordo al costante orientamento giurisprudenziale, sia da considerare illegittima la partecipazione a gare di appalti pubblici delle associazioni di volontariato di cui alla L. n. 266/1991 (legge quadro sul volontariato), in quanto l’espletamento di una procedura di selezione del contraente, fondata sulla comparazione delle offerte con criteri concorrenziali di convenienza tecnica-economica, risulta essere inconciliabile con il riconoscimento alle associazioni di volontariato, ex art. 5 della citata L. n. 266/1991, della possibilità di usufruire di proventi costituiti esclusivamente da rimborsi derivanti da convenzioni che prescindono dalle regole di concorrenza.
In particolare, infatti, l’art. 2, comma 1 e 2, della legge n. 266/1991 prevede che per attività di volontariato deve intendersi quella prestata in modo personale, spontaneo e gratuito, tramite l’organizzazione di cui il volontario fa parte, senza fini di lucro anche indiretto ed esclusivamente per fini di solidarietà e, inoltre che: l’attività del volontario non può essere retribuita in alcun modo nemmeno dal beneficiario; al volontario possono essere soltanto rimborsate dall’organizzazione di appartenenza le spese effettivamente sostenute per l’attività prestata, entro limiti preventivamente stabiliti dalle organizzazioni stesse. Il comma 3 dell’art. 2 cit. stabilisce, inoltre, l’incompatibilità della qualità di volontario con qualsiasi forma di rapporto di lavoro subordinato o autonomo e con ogni altro rapporto di contenuto patrimoniale con l’organizzazione di cui fa parte.
La caratteristica precipua dell’attività di volontariato consiste dunque nella sua gratuità, che comporta come corollario inevitabile l’impossibilità di retribuire la medesima, anche da parte del beneficiario. Risulta evidente, pertanto, che la stipulazione di un contratto a titolo oneroso, quale un appalto pubblico di servizi, si pone come incompatibile, rispetto a tale fondamentale aspetto del volontariato. L’onerosità implica, infatti, che l’Amministrazione – per conseguire il vantaggio rappresentato dall’espletamento del servizio dedotto in appalto – corrisponda il correlativo prezzo, evidentemente comprensivo della retribuzione dei lavoratori impiegati per svolgerlo. Di conseguenza, sussiste una evidente incompatibilità tra l’espletamento di una gara finalizzata all’aggiudicazione di un pubblico servizio e la partecipazione, alla medesima, di associazioni di volontariato (in questo senso T.A.R. Campania, sez. I, 2/4/2007 n. 3021).
Inoltre la stessa legge n. 266/1991 all’art. 5 prevede che le organizzazioni di volontariato traggono le risorse economiche per il loro funzionamento e per lo svolgimento della propria attività da: a) contributi degli aderenti; b) contributi di privati; c) contributi dello Stato, di enti o di istituzioni pubbliche finalizzati esclusivamente al sostegno di specifiche e documentate attività o progetti; d) contributi di organismi internazionali; e) donazioni e lasciti testamentari; f) rimborsi derivanti da convenzioni; g) entrate derivanti da attività commerciali e produttive marginali. Pertanto, il dettato normativo ha escluso che le associazioni di volontariato possano, di regola, espletare attività commerciali, ammettendo solo quelle qualificabili come “marginali”. Peraltro, con D.M. del 25 maggio 1995 sono stati individuati i criteri per stabilire quali attività sono da intendersi commerciali e produttive “marginali” svolte dalle organizzazioni di volontariato e tra le attività ivi elencate non figura la partecipazione a procedure di selezione concorrenziale, anzi il citato D.M. precisa che tali attività devono essere svolte “senza l’impiego di mezzi organizzati professionalmente per fini di concorrenzialità sul mercato”.
Del resto, anche la più recente giurisprudenza civile e amministrativa, nell’accogliere l’ampia nozione di impresa elaborata dalla Corte di Giustizia, che ricomprende in essa qualsiasi soggetto che eserciti attività economica a prescindere dal suo stato giuridico e dalle sue modalità di finanziamento (sent. Corte di Giustizia 1.7.2008, causa C-49/07) e afferma che l’assenza di fine di lucro non esclude che un soggetto giuridico che esercita attività di impresa possa essere considerato impresa (sent. Corte di Giustizia 29.11.2007, causa C-119/06), ha precisato, tuttavia, che “il carattere imprenditoriale dell’attività va, invece, escluso nel caso in cui essa sia svolta in modo del tutto gratuito, atteso che non può essere considerata imprenditoriale l’erogazione gratuita dei beni o servizi prodotti” (Cass. Civ. III, 19.6.2008 n. 16612, TAR Veneto, sez. I, 26.3.2009, n. 881).